La guerra civile generazionale che verrà (se non facciamo qualcosa)

La sensazione è confermata dai dati: il movimento Fridays for the Future lanciato dalla svedese Greta Thunberg è innanzitutto una rivolta generazionale, prima ancora che una rivolta climatica.

Che può essere l’inizio di una guerra civile mondiale.

Sensazione, innanzitutto: perché basta farsi un giro nella socialsfera per rendersi conto che l’odio montante nei confronti di Thunberg – definita “bambina” nonostante i suoi 16 anni, osteggiata per la sua sindrome di Asperger – ha poco di politico.

Contro di lei si scagliano elettori di destra e di sinistra indifferentemente, ma uniti, più che dal cosiddetto “rossobrunismo” (la saldatura sovranista tra i due poli estremi dello spettro politico contro l’élite liberal occidentale), dall’età: il 42% dei post su Greta Thunberg ha una connotazione negativa su Twitter, il social che ha l’età media degli utenti più alta di tutti.

Hanno preso posizione contro i ragazzi di Fridays for the Future tanto Vittorio Feltri quanto Massimo Cacciari. A loro, come a molti altri, quella frase “How dare you?” – come avete osato? Accusa rivolta ai responsabili del disastro climatico – non è andata proprio giù, come se, piuttosto che essere un’accusa verso un modello socio-economico insostenibile, fosse piuttosto la colpevolizzazione di intere generazioni.

D’altro canto basta fermarsi un attimo a ragionare. Come evidenziano gli esperti di generazioni – tra cui gli studi di Generation Moversolo a partire dagli anni Ottanta è iniziato a emergere, perlomeno in Italia, un sentimento schiettamente ecologista, a partire dalle preoccupazioni sul buco nella fascia d’ozono, mentre solo dagli anni Novanta le famiglie italiane hanno iniziato a riciclare i rifiuti con sistematicità, prendendo consapevolezza del problema della plastica e dell’esistenza di materiali che possono persistere in natura per secoli e millenni. Per buona parte degli over-50, dunque, l’ambiente (e tantomeno il clima) non è mai stato un problema di cui occuparsi; mentre i più giovani hanno imparato fin da bambini che alcune risorse, come l’acqua potabile, possono consumarsi più velocemente del ciclo che le rigenera, per cui conviene chiudere il rubinetto quando ci si lava i denti.

Più che un evento di rottura, il movimento di Greta Thunberg è l’ennesimo “segnale debole” che, se incrociato con altri, suggerisce un’inquietante tendenza.

Per citare solo alcuni episodi:

  • la netta divisione generazionale tra i Brexiters e i Remainers tanto nel referendum del 2016 quanto nei movimenti di protesta successivi nel Regno Unito (l’altra linea di faglia è quella tra città e provincia, ma è una chiave di lettura fallace: le città sono notoriamente più giovani demograficamente delle province, da dove i giovani sono costretti ad andar via molto presto per gli studi superiori e poi per il lavoro);
  • l’elezione a uomo più potente del mondo di Donald Trump che, all’epoca dei fatti, aveva 70 anni, e i cui principali avversari ne avevano rispettivamente 68 (Clinton) e 75 (Sanders);
  • il recente dibattito in Italia sulla riduzione dell’età elettorale a 16 anni, per compensare il fatto che le elezioni da qualche anno a questa parte sono monopolizzate dalle scelte politiche delle generazioni più avanzate; la proposta-choc di Beppe Grillo, di contraltare, per togliere il diritto di voto oltre una certa età.

Nel Regno Unito, di nuovo, hanno notato che, mentre negli anni Settanta il 40% degli elettori votava per i laburisti in tutte le coorti d’età (e negli appartenenti alla classe operaia l’orientamento laburista era triplo rispetto alle classi borghesi), oggi un trentenne ha il doppio delle probabilità di votare Labour di un settantenne, che ha il doppio delle probabilità di votare Tory rispetto a un trentenne. Nel suo libro The Theft of a Decade: How the Baby Boomers Stole the Millennials’ Economic Future (2019), Joseph Sternberg mostra come la Grande Recessione, frutto delle politiche economiche insostenibili dei Matures e dei Boomers, abbia danneggiato soprattutto le possibilità delle giovani generazioni.

Raffaele Alberto Ventura ne ha parlato diffusamente nel suo saggio Teoria della classe disagiata (2017), dove fin dalle prime righe precisava che la sua analisi non riguardava una classe, ma “il lamento di tutta una generazione”. Sono i figli dei Boomers, preparati fin da piccoli ad aspettarsi un radioso futuro di possibilità sconfinate che sono andate invece sistematicamente deluse quando si è scoperto che quel futuro non esisteva più, era stato “rubato”, forse proprio dai loro stessi genitori, i quali, colpevoli solo di essere troppi (e quindi facendo ricadere le colpe, a loro volta, sui propri genitori, i Matures), hanno occupato tutte le posizioni disponibili e si preparano, quando usciranno dal mercato del lavoro, a far collassare tutto il welfare previdenziale dei paesi occidentali, disperatamente impegnati da trent’anni a questa parte in una corsa contro il tempo per riformare le pensioni allo scopo di minimizzare il disastro prospettato da demografi ed economisti. Si prepara quella che Ventura, nel suo ultimo libro, ha definito La guerra di tutti (2019), che sarà innanzitutto una guerra generazionale.

Nulla di imprevedibile, sia chiaro. Anzi. Lo storico americano Peter Turchin da tempo mette in guardia dai rischi della “sovrapproduzione delle élite” che si verifica quando, in un sistema sociale, le nuove generazioni sono più istruite delle precedenti e tuttavia mancano posti a sufficienza per soddisfarne le aspirazioni, a causa della naturale inerzia delle generazioni più avanzate: meccanismo che ha causato più di una rivoluzione, a partire da quella francese, che fu fatta dai trentenni (si dimentica che quella era l’età, sul patibolo, di Danton, Robespierre, Desmoulins).

I demografi ci mettono da tempo in guardia sui rischi di un inedito capovolgimento della piramide d’età, considerando il fatto che la spinta all’innovazione è giocoforza caratteristica delle età più giovani, mentre con l’andare degli anni cresce la propensione conservatrice.

Dobbiamo allora rassegnarci alla guerra civile generazionale prossima ventura? Non necessariamente.

Il primo punto è comprendere che il futuro immaginato e aspirato da una generazione non corrisponde mai a quello immaginato e aspirato da un’altra.

I genitori tendono da sempre a proiettare sui figli piani e progetti tarati sulla loro visione del futuro; ma se questo meccanismo non generava particolari problemi in un’epoca – che corrisponde grossomodo all’intera storia umana fatti salvi gli ultimi due secoli circa – in cui i cambiamenti richiedevano tempi ben più lunghi di quelli generazionali per dispiegarsi, l’accelerazione del cambiamento a partire dalla rivoluzione industriale rende inevitabile uno scollamento tra i due diversi orizzonti di futuro, quello dei genitori e quello dei figli.

Tale scollamento, già ben evidente tra Matures e Boomers, sta assumendo, nelle nuove generazioni, le dimensioni di una voragine. Secondo la sociologa Carmen Leccardi, “la nuova fisionomia che il futuro è andato progressivamente acquisendo nei decenni successivi al boom economico del secondo dopoguerra – un profilo sempre più segnato dalla crisi e dalla perdita di governabilità – esercita un’influenza pervasiva sulla diffusione di forme di incertezza biografica tra i giovani”.

Ma, se confrontata con l’aspettativa del futuro dei loro genitori, l’aspettativa dei giovani è decisamente meno ottimista, quantitativamente ridimensionata (in particolare nei redditi) e certamente più incerta, questo non impedisce ai giovani di immaginare futuri altri, anche radicalmente diversi da quelli dei loro genitori, nei quali ciò che agli occhi di questi ultimi può sembrare negativo (per esempio un’occupazione a basso reddito) assume invece un nuovo significato valoriale (per esempio un’occupazione ad alto potenziale sociale).

Il secondo punto ci riporta a Greta Thunberg e riguarda l’esigenza di recuperare l’indicazione programmatica del filosofo Hans Jonas quando, nel 1979, enunciava il suo principio responsabilità.

Il movimento Fridays for the Future chiede a chi governa di tenere in considerazione innanzitutto i diritti delle generazioni a venire, nell’elaborazione di quelle politiche che potrebbero comprometterne l’esistenza.

La possibilità di costruire futuri diversi non può prescindere infatti dall’esistenza di risorse sufficienti alla loro realizzazione.

Se queste risorse – quelle deperibili della natura, i mari, le aree fertili, e soprattutto il clima stabile e temperato che ha permesso alla nostra specie di proliferare dopo l’ultima era glaciale – venissero meno, potremmo davvero dire che le generazioni precedenti ci hanno “rubato il futuro”, sottraendo alle nuove generazioni e a quelle a venire i mezzi per costruire mondi nuovi. “Un’eredità degradata coinvolgerebbe nel degrado anche gli eredi”, scriveva Hans Jonas.

La tutela dell’eredità nella pretesa di «integrità dell’uomo» e quindi, in senso negativo, anche la salvaguardia dal degrado, deve essere l’impegno di ogni momento: non concedersi nessuna pausa in quest’opera di tutela costituisce la migliore garanzia della stabilità, essendo, se non l’assicurazione, certo il presupposto anche dell’integrità futura dell’identità umana”.

Roberto Paura

Presidente IIF – Italian Institute for the Future

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