Non molti lustri or sono, coloro che lavoravano in un ufficio furono coinvolti in un sommovimento epocale: via le piccole stanze, tutti quanti riuniti in ampi, ariosi, luminosi e divertenti saloni. Nasceva l’open space, che doveva servire per favorire la libera circolazione di idee, il lavoro di squadra, il senso di appartenenza.
Peccato che abbia favorito soprattutto le distrazioni, lo stress e la libera circolazione delle influenze stagionali. Come lo sappiamo? Dai risultati di osservazioni sistematiche e dalle testimonianze dirette dei lavoratori stessi.
Un’iniziativa concepita per favorire il lavoro intellettuale si è rivelata un formidabile ostacolo proprio a quel tipo di attività, e oggi l’open space è apertamente detestato dalla stragrande maggioranza di coloro che lo subiscono. O almeno così pare in questo articolo “In ufficio l’open Space non funziona, meglio lavorare al bar”.
Tutto sbagliato, dunque? Bisogna tornare alle stanzette? Non proprio: in fondo, l’idea della contaminazione delle menti e dell’unione delle forze è tutt’ altro che peregrina.
Soltanto, è arrivata troppo presto, anticipando per una volta la tecnologia che la può abilitare al meglio. Così, nel 2017 la futurologa Nicola Millard può preconizzare la scomparsa degli open space a vantaggio del “coffice”, cioè di quell’incrocio tra ufficio e caffetteria reso possibile da quegli strumenti tecnologici e culturali che stanno dando vita al modello dello smart working: i nuovi lavoratori, quelli che si portano l’ufficio nello zaino sotto forma di portatili e tablet, potranno gestire tempi e luoghi in modo più consono alle esigenze della produttività, salvaguardando nel contempo il buono che stava nell’idea originaria dell’open space. Un bell’esempio di evoluzione.
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Mattia Rossi