Perchè il ‘Generational Mindset’ dovrebbe essere un tema di interesse per le Neuroscienze? Ce lo spiega, nel primo di 4 articoli, la Dott.ssa Arianna Sardu.
Perché esistono le generazioni?
Attualmente, sette generazioni convivono sul pianeta, e sempre di più il background culturale dell’ambiente lavorativo, familiare ed educativo è influenzato dalla prospettiva generazionale, ma che cosa si intende per generazione?
“Un gruppo di persone, nate e cresciute in una stessa decade o ventennio, che condivide un comune sistema di credenze e valori, una filosofia di vita, forme di pensiero e un insieme di capacità e competenze.”. Questa definizione di generazione racchiude in sé un fattore chiave che risponde alla domanda di apertura: è il periodo storico-sociale, culturale e tecnologico che caratterizza uno stesso contesto, che contribuisce a dare un’identità di gruppo alle persone, le generazioni appunto.
Il rapporto uomo-ambiente è intrinsecamente parte della natura umana e della vita stessa.
Attraverso l’ambiente con i suoi stimoli-input e i suoi problemi, l’uomo prospera, cresce e si evolve, in una condizione di costante e perenne cambiamento e auto-miglioramento. Allo stesso modo, attraverso le scoperte, gli eventi storico-politici, le tecniche e le innovazioni raggiunte dall’uomo, l’ambiente si espande in termini di orizzonti geografici, scientifici e tecnologici.
Si può definire per questo il rapporto uomo-ambiente come un sistema, in cui ogni variazione di un elemento si riflette sull’altro e viceversa, in un’infinita danza tra omeostasi ed evoluzione.
Ogni periodo storico influenza profondamente e radicalmente le persone che lo vivono, ed è questo a rendere ogni generazione unica e irrepetibile.
Personalità generazionale e capacità di adattamento
Considerando il rapporto sistemico tra uomo e ambiente, il concetto stesso di generazione contiene il presupposto umano ed evoluzionistico dell’adattabilità. Tale capacità umana deriva dall’estrema neuroplasticità del nostro cervello. Come sostiene Alvaro Pascual-Leone nel suo articolo The Plastic Human Brain Cortex: “... il cervello è progettato per essere modellato da spinte, cambiamenti ambientali, modifiche fisiche, fisiologiche ed esperienze.”
La plasticità del cervello è sia una proprietà intrinseca del sistema nervoso, per tutta la durata della vita umana, sia il meccanismo attraverso il quale gli uomini possono imparare, crescere e realizzarsi, stimolando quella scintilla evoluzionistica che brucia dentro e che ci spinge sempre a sperimentare, inventare, creare e migliorarci verso qualcosa di più, di nuovo, di inesplorato.
Questo aiuta a comprendere perché l’uomo cambia attraverso il modo in cui vive e secondo gli strumenti che utilizza in un determinato periodo storico-sociale e tecnologico. Eppure, tale malleabilità e apertura al cambiamento porta con sé una contraddizione definita da Doidge come “paradosso della neuroplasticità”. Se da un lato il nostro cervello presenta una notevole flessibilità mentale che ci consente di guardare alle numerose possibilità che la vita ci offre in modo da acquisire sempre nuove capacità e ampliare i nostri orizzonti; dall’altro lato il cervello ha la tendenza a trasformare in abitudine un comportamento rafforzato, rischiando di metterci in una condizione di rigidità. La natura di questo paradosso deriva dal modo in cui si creano le reti neurali.
Le “chiacchiere” delle reti neurali
Le informazioni nel cervello viaggiano attraverso i neuroni sotto forma di brevi impulsi elettrici. Il passaggio di tali impulsi tra un neurone e l’altro avviene in corrispondenza delle sinapsi che li collegano tra loro, permettendo quindi ai neuroni di “chiacchierare”, scambiandosi informazioni e comandi.
Quando impariamo qualcosa di nuovo attiviamo determinati neuroni che, tramite le sinapsi, si connettono tra di loro formando appunto le “reti neurali”. Più stimoliamo il cervello con cose nuove più creiamo connessioni e di conseguenza reti. Ed è qua che sta il paradosso: anche all’interno del nostro cervello vige la “regola del più forte”, o in questo caso sarebbe più giusto dire che sopravvive solo la rete “più impegnata”, ovvero quella più esercitata e attivata. Come in natura, le risorse per sopravvivere sono estremamente limitate, e in questo caso il cosiddetto “cibo per la mente” prende il nome di “neurotrofine”. Solo le reti e, di conseguenza, i neuroni attivati con più frequenza le assorbono, garantendone non solo la loro sopravvivenza ma anche la loro crescita e il loro rafforzamento.
Come si rispecchia all’esterno?
Un po’ come quando usiamo una macchina o una bici…finché pratichiamo, affiniamo le nostre abilità di guida, ma se non la usiamo per un certo periodo di tempo, possiamo notare un notevole calo delle nostre abilità o persino che le abbiamo perse completamente!
E cosa succede quando usiamo le tecnologie?
Più o meno la stessa cosa. Parlare, scrivere, leggere su stampa o in digitale sono tutte abilità che abbiamo gradualmente imparato e usato a discapito di altre.
La scrittura, come diceva Platone nel “Fedro”, nata come aiuto esterno alla memoria ha avuto l’effetto di ridurla … non potremo più ricordare a mente l’intera Odissea, come si faceva un tempo.
Lo stesso per la lettura digitale che ci ha permesso di allenare determinate capacità a discapito di altre. Ma Quali?
Ne parliamo nel prossimo numero.
Arianna Sardu
Scienze e Tecniche psicologiche
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