'Non gioco più': una questione (anche) da Boomer

L’economia globale rallenta ma il fenomeno delle grandi dimissioni, non si ferma, anzi. Coinvolge persone di ogni età con risvolti e motivazioni diverse. Ma chi sono, davvero, quelli che se ne vanno? Perché? E qual è l’impatto sulle aziende e sul lavoro?

I dati confermano significative differenze nelle aspettative professionali e nella soddisfazione lavorativa tra le diverse fasce d’età. Soprattutto, cadono alcuni luoghi comuni legati al fatto che sono solo i più giovani a lasciare.

Tutte le ricerche, dalla pandemia Covid in avanti, confermano un disallineamento tra aspettative professionali e permanenza sul posto di lavoro. In Italia il 25% dei lavoratori è pronto a cambiare lavoro entro un anno, mentre il 51% è pienamente soddisfatto della propria occupazione. Una quota che aumenta tra le giovani generazioni, con il 37% della Gen Z e il 32% dei Millennial. (PwC Hopes and Fears Global Workforce Survey)

Nel 2022, negli Stati Uniti, oltre 40 milioni di persone hanno scelto di abbandonare il proprio posto di lavoro, in Italia questo dato si attesta a più di 2 milioni di lavoratori, un numero non piccolo se si pensa che gli occupati sono circa 23 milioni. Uno scenario che ha suscitato discussioni e riflessioni sull’attuale dinamica occupazionale, sul mondo del lavoro e sul significato stesso di lavoro.

Di seguito è riportata una sintesi dei dati italiani, emersi da una ricerca 2022, realizzata da Randstad (HR Trends & Salary Survey),  sul livello di benessere e le dimissioni nelle diverse generazioni:

http://www.lavorosi.it/rapporti-di-lavoro/dimissioni/grandi-dimissioni-la-parola-agli-hr-manager/

La tabella evidenzia come ad un più elevato livello di benessere e serenità aziendale corrisponda un minore tasso di dimissioni volontarie. Tuttavia, il dato che anche i Baby Boomers, seppure in percentuale minore, si dimettano è un indicatore dei tempi che cambiano da osservare con attenzione.

Inoltre, secondo LinkedIn i Millennial e Zoomer (Millennial giovani e Z Gen più adulti, riferimento a 25-35enni) che lasciano il proprio lavoro – nel 24% dei casi entro i sei mesi dall’assunzione – ne cercano, e trovano, un altro, quasi sempre. Lo stesso non accade per i Baby Boomer.

Se a questa analisi aggiungiamo elementi che arrivano da uno scenario più allargato il quadro assume sfumature ulteriori.

Allargando lo sguardo oltre l’Italia, secondo gli ultimi dati di uno studio della British Columbia (2022, Canada), sono Baby Boomer oltre 2 dei 3,5 milioni di persone che hanno lasciato il lavoro senza trovarne un altro. La motivazione è dovuta alla costante impennata del mercato immobiliare, i Baby Boomer hanno venduto le proprie case a prezzi molto alti, anticipando così l’età pensionabile.

Se è vero che Millennial e Zoomer lasciano più spesso il proprio lavoro per trovarne un altro più economicamente attrattivo, o perlomeno con ambienti di lavoro più soddisfacenti, è anche vero che, in generale, i membri di queste due generazioni sono senza rendite, hanno due grosse crisi finanziarie mondiali sulle spalle, vivono spesso in affitto, non sempre riescono a pagarsi gli studi e, anche per questi motivi, hanno la necessità di trovare un’alternativa di guadagno.

I boomer invece, in maggioranza sono proprietari di immobili di vario tipo, hanno potuto capitalizzare su case acquistate decenni prima a prezzi decisamente inferiori, per questo possono evitare di rientrare nella forza lavoro. Secondo lo studio canadese della British Columbia:

nelle città americane dove i prezzi delle case sono aumentati in un anno di almeno il 10 percento, è salito notevolmente il numero di over 65 che ha smesso di lavorare rispetto a città in cui il mercato immobiliare è rimasto più stabile. 

La tabella riassuntiva seguente aiuta a fare ordine con una chiave di lettura generazionale:

IL GRANDE RIFIUTO

Gli impatti di questa grande mobilità nel mercato del lavoro possono essere rivoluzionari: non è più solo questione di lavoratori ma anche di ridefinizione del lavoro stesso.

A fronte della manifestazione tangibile del grande rifiuto delle generazioni più giovani ad accettare condizioni di lavoro ritenute insufficienti per garantire uno stile di vita decoroso, dignitoso e sostenibile, basato su logiche di performance non più accettabili come misura del valore umano, l’alternativa è quella quantomeno di guadagnare il più possibile nel più breve lasso di tempo. Un’agilità di movimento che i più giovani sanno praticare bene, senza il filtro della lealtà all’azienda o della gavetta, del resto hanno imparato crescendo che tutto è veloce e in mutamento. L’Italia è l’unico paese europeo in cui gli stipendi sono più bassi rispetto a 10 anni fa, con una recessione in arrivo, e l’inflazione in corso l’unico modo per aumentare le entrate e vivere dignitosamente in città costosissime, è quello di chiedere un aumento o cambiare lavoro, magari entro un anno dall’inizio di un nuovo contratto, esattamente come fanno i più giovani di questi tempi.

L’IMPATTO SULLE AZIENDE

Per le aziende italiane la rincorsa ai candidati è ormai una realtà costante che riguarda ogni settore e regione.

Questo fenomeno diventa sempre più difficile da sostenere, soprattutto a causa del calo demografico che comporta una carenza di giovani candidati e del grande flusso in uscita dal mercato del lavoro dei Baby Boomer, i quali nei prossimi 8 anni incrementeranno notevolmente il numero dei pensionati italiani. Prendendo in considerazione quelle realtà imprenditoriali che si occupano dei propri dipendenti in modo attento e corretto offrendo contratti regolari, percorsi di formazione e organizzazione del lavoro flessibile – ce ne sono più di quanto si possa percepire -, l’impatto del fenomeno delle dimissioni volontarie è ancora più pesante.

Per le aziende di piccole e medie dimensioni, specialmente quelle senza un ufficio di selezione interno, è ‘difficile navigare in questo mare’ per molti motivi. Ad esempio, se dipendenti appena assunti presentano le dimissioni:

  • concedere un aumento risulta finanziariamente difficile e, anche se viene soddisfatta la richiesta per necessità, il rapporto di fiducia può incrinarsi, generando un clima di ricatto;
  • riattivare un processo selettivo è molto costoso (a livello economico e temporale), soprattutto considerando che l’investimento iniziale non è ancora stato ammortizzato;
  • le risorse in azienda da più tempo potrebbero sentirsi poco considerate, con una conseguente diminuzione della motivazione generale.
RIVOLUZIONARE IL MODELLO DI LAVORO DEL XXI SECOLO: UNA SFIDA IMPRESCINDIBILE

Le aziende italiane si trovano di fronte a una sfida di grande portata nella gestione delle risorse umane. La complessa situazione è dovuta sia al fenomeno delle Grandi Dimissioni, sia al contesto demografico in continua evoluzione, nonché alle aspettative diverse dei lavoratori, sia giovani che anziani.

Per affrontare questa sfida, non è più sufficiente adottare semplici strategie di retention del personale. È fondamentale intraprendere una riconsiderazione profonda del significato e dell’importanza del lavoro nella vita delle persone. Questo implica riflettere sulla quantità di tempo dedicato al lavoro, considerando anche le diverse fasi di vita dei lavoratori e i loro progetti personali, collettivi e di sistema.

Solo abbracciando questa visione più ampia e innovativa del lavoro, le aziende potranno davvero rispondere alle mutevoli esigenze dei loro dipendenti e garantire una gestione delle risorse umane efficace e autorevole nel contesto del XXI secolo.

ip, luglio 2023

 

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