Il valore dei senior in azienda

Quando racconto a qualcuno di che cosa ci occupiamo in Generation Mover, quasi inevitabilmente il discorso finisce sul fatto che l’età media delle popolazioni aziendali si alza sempre più. E a questo punto si comincia a parlare di acciacchi, di energie che vengono meno, di resistenze all’ innovazione, di incapacità di “usare il computer”… Insomma: si parla sostanzialmente di “vecchi” e dei relativi problemi.

Ma siamo sicuri che questa chiave di lettura sia la più corretta? Alla base della mission di Generation Mover c’è la profonda convinzione che la diversità – di genere e di età – sia una risorsa. Se ci impegniamo tutti i giorni a costruire ponti intergenerazionali dentro le organizzazioni, è perché l’esperienza stessa ci ha dimostrato quanta ricchezza possa scaturire da tutto ciò.

E’ però necessario un pregiudizio: ogni punto di vista, e quindi ogni generazione con il rispettivo approccio culturale, è un potenziale contributo costruttivo. Anche se visioni e motivazioni diverse sembrano allontanare le persone e le possibilità di collaborazione.


“Ogni generazione desidera avere un lavoro ricco di senso, ma ciascuna è convinta che tutte le altre stiano lì solo per i soldi”.


Il virgolettato è dello studioso americano Paul Irving, che in un approfondito articolo* sulla Harvard Business Review affronta proprio questo problema. Da almeno un decennio si evidenzia da più parti l’innalzamento dell’età media come l’elemento di maggior impatto sul mondo del lavoro di questi e dei prossimi anni. Eppure la stragrande maggioranza delle aziende non ci ha ancora messo la testa. Per di più, tra quelle che l’hanno fatto, quasi tutte vedono un problema anziché un’opportunità.

Il pregiudizio imperante pare essere ancora quello che “dopo una certa età” una persona smette di essere una risorsa e diventa una zavorra sempre più pesante. Dopo le battaglie per riconoscere uguale dignità ad ogni appartenenza di genere, etnia, religione e orientamento sessuale, dice Irving, è il momento di avviare una grande operazione culturale contro il “razzismo delle età”.

E’ vero, sarebbero urgenti un po’ di cambiamenti organizzativi: ad esempio, ridisegnare i tempi (durata nella settimana, orari giornalieri…) e i modi (strumenti, attrezzature, organizzazione degli spazi) di lavoro in modo da venire incontro alle esigenze dei senior.

Non è impossibile, né particolarmente traumatico: Irving elenca diversi esempi già attivi nella realtà aziendale americana. Ma soprattutto, vanno riconosciuti e portati in superficie i contributi di valore che arrivano dai lavoratori più adulti, proprio in quanto tali. Questi infatti, ad esempio, risultano essere un fattore di coesione, in quanto tendono a contribuire al successo collettivo più che a preoccuparsi della propria carriera. Condividono le informazioni e i valori aziendali. Sono portatori di stabilità emotiva e di competenze di problem solving particolarmente complesse, di un pensiero sofisticato e di un know-how aziendale solido e robusto.

Ecco allora una fonte di valore potenzialmente ricchissima ma non sempre sfruttata a dovere: creare il giusto mix generazionale dentro i team e i dipartimenti aziendali, e favorire la reciproca comprensione e comunicazione a tutti i livelli. In una parola: rendere la costruzione di efficaci ponti intergenerazionali una priorità organizzativa, a tutto vantaggio delle performance di business. Che è poi, da 10 anni a questa parte, il mestiere di Generation Mover.

Mattia Rossi

 

*“When no one retires”, HBR, by Paul Irving

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